12 giugno 2000 - Pura (Svizzera) - di Quirino Principe
In memoriam
Arturo Benedetti Michelangeli
Nel V anniversario della morte
È impossibile, per chi appartenga alla mia generazione, ricordare Arturo Benedetti Michelangeli in maniera impersonale. Chi, alla fine della seconda guerra mondiale, aveva otto o nove anni, e soltanto allora si avvicinava con i giusti strumenti di conoscenza alla musica sia perché l'età lo consentiva sia perché gli anni di guerra avevano offerto poche occasioni per non dire nessuna, fu investito all'improvviso, senza una preparazione che attenuasse il trauma,dall'immagine di quell'uomo, già rivestita di tratti leggendari. Di quella leggenda già in atto, conviene ribadirlo, non era minimamente responsabile l'artista allora ventisettenne o ventottenne: fissiamo quell'età, poiché chi scrive queste righe cominciò soltanto nel 1947 o nel 1948, ad avere una nozione orientativa dell'Olimpo in cui i pianisti di qualità superiore venivano collocati dagli insegnanti o dai più sapienti (talora, dai più saccenti) fra i compagni di studi, in quella fase aurorale del nostro apprendistato.
Per chi nella mia generazione sia nato, la rivelazione di Arturo Benedetti Michelangeli fu dunque qualcosa di totalmente diverso da ciò che essa era stata per chi aveva scoperto la musica soltanto pochi anni prima, e, all'inverso, da ciò che essa sarebbe stata per i più giovani. Vedere delinearsi quella figura dai connotati che affascinavano e forse, per un sovrappiù di eccellenza e d'irraggiungibilità, spaventavano, fu per noi un evento contemporaneo alla nostra prima conoscenza di quella parte della letteratura pianistica cui Benedetti Michelangeli ha legato il proprio nome. Anzi, lo confessiamo volentieri, nel nostro orizzonte musicale, allora ristrettissimo, la prima apparizione di quei miracoli di bellezza senza la cui esistenza la vita avrebbe come fine il suicidio, Jeux d'eau e Gaspard de la nuit di Ravel, i Préludes di Debussy, la Sonata n. 2 e la Grande Polonaise brillante précédée d'un Andante spianato di Chopin (con sorpresa iniziale destinata a dissolversi, avremmo appreso più tardi, a posteriori, che la maggior parte di quelle composizioni avrebbe costituito il programma del famoso concerto di sabato 13 giugno nella Sala Nervi in Vaticano, un concerto che ai nostri occhi si veste di colori tragico-eroici per quel che ne seguì), tutte queste musiche e altro ancora, vennero a far parte per la prima volta del nostro immaturo e povero sapere soltanto perché Benedetti Michelangeli, con la sua fama già irresistibile, ne fu il tramite, il primo veicolo.
Seguivamo avidamente le cronache dei concerti, o, meglio, gli echi di quelle cronache, poiché nella nostra città di frontiera sull'orlo di un vulcano politico non c'erano, allora, sale di concerto né soste di grandi musicisti in tournèe, e la radio non dava, in merito, alcun ausilio. In nome della verità, diremo che i nostri insegnanti di pianoforte, molto valenti e colti, per lo più di vecchia scuola viennese o zagabriese - il che significava sicura perizia didattica e prezioso orientamento offerto al gusto, forse con troppa rigidità nel censurare per esempio Rachmaninov, proprio quel Rachmaninov il cui Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra Benedetti Michelangeli avrebbe fatto vivere restituendo la consapevolezza che l'energia è sempre nobile e la nobiltà è sempre energica e che non esiste vera energia associata a trivialità - non ci decantavano né ci proponevano ad esempio il giovane pianista bresciano: egli era il culto di noi giovani d'allora, poiché i più anziani, detentori sia pure d'uno straccio di potere musicale e culturale, erano infastiditi da ciò che di lui si narrava, e una latente gelosia professionale, incredibile dictu, si annida anche nell'animo di chi abbia scelto come proprio lavoro il dare felicità agli altri mediante la musica. Ci accorgemmo così, fortemente delusi, che era falsa una nostra opinione sulla quale avevamo costruito da bambini la nostra volontà di far musica: falso, che i musicisti siano per definizione esseri superiori. Ci adattammo a un'altra formula, più amara, più adattabile a un mondo più povero, ma più veritiera: che esistono rarissimi esseri superiori, e fra essi alcuni, pochi, sono musicisti, ma allora sono superiori in misura vertiginosa. Per il resto, molte miserie. Fra noi, studenti di pianoforte in Conservatorio, quasi tutti erano compagni in una classe del Liceo-Ginnasio cittadino. Fu tra un'ora di matematica e una di greco che uno di noi, miglior pianista degli altri e particolarmente saputo e disinvolto, comunicò la vergognosa notizia: che a New York, poco prima di un concerto del marito (sarà stato il 1950 o 1951), la moglie del pianista Nikolaj Orlov, rispondendo alla domanda di un giornalista, aveva detto di rimando: «Chi? Benedetti Michelangeli?.Ah, sì, quel dattilografo italiano.!». All'interno della nostra conserteria scoppiò una tale indignazione che durante l'ora di greco continuammo a parlottare recriminando tanta volgare bassezza e macchinando di "fare qualcosa" (???). Disturbavamo, e fummo espulsi dall'aula per un'ora: accettammo la punizione come un piccolo martirio offerto alla grandezza del nostro pianista idolatrato.
Trascorsi decenni, che a me sembrano secoli (secoli, non per rimpianti che la nostra personale senilità voglia riversare sul tempo che fu, ma proprio perché Benedetti Michelangeli ci sembra una figura antica, esistita da sempre), dopo una spaventosa fuga temporum di oraziana memoria e dopo i proustiani «géants plongés dans les années», e a cinque anni dalla morte di lui, ci domandiamo che cosa dire in breve, con «qualche storta sillaba e secca come un ramo», di Arturo Benedetti Michelangeli. Una serie di antinomie, di quelle che ironizzano sulla burocrazia delle idee e smentiscono quasi sempre le sentenze della critica divenuta, da espressione di giudizio, istituzione ufficiale e centro di potere. La prima antinomia: Benedetti Michelangeli era fisicamente tutt'uno con il pianoforte (con i suoi pianoforti, dai quali non si separava), eppure egli è stato uno dei rarissimi dominatori di uno strumento per i quali la musica sia stata più importante del pianoforte o del violino o del flauto. In altri casi, si ha l'impressione che tra l'interprete e la musica esiste sempre un diaframma, per quanto prezioso; in Benedetti Michelangeli la musica è presente, immanente, senza mediazioni, trasmessa da una saggezza rocciosa eppure ingenua e vulnerabile come l'albatro sulla tolda della nave nella poesia di Baudelaire: vola con ali magnifiche, ma cammina impacciato, poiché «ses ailes de géant l'empéchent de marcher». A lui si adattano bene i versi di Anna Achmàtova:
Sempre più qui, più qui... |
La Marche funèbre... |
Chopin |
Questa presenza della musica senza mediazione è ciò che, in certi istanti, può anche spaventare nelle interpretazioni che egli ci ha offerto e donato. Non c'è in esse il segmento, il confine tra l'uno e l'altro elemento di costruzione. La sostanza è acquea, interamente fluida e fresca, a volte gelida. Nel pensiero musicale dell'induismo classico, l'acqua si connette con lo svara gandhara, con la Luna e con il giorno di lunedì: chiediamo perdono se osiamo tanto, ma ci viene da ricordare che Arturo Benedetti Michelangeli nacque di lunedì (il 5 gennaio 1920, anche se è più corretto dire che venne al mondo nella notte tra il 5 e il 6) e morì di lunedì (il 12 giugno 1995).
Benedetti Michelangeli ha avuto tre connotati eminenti. Tutta la sua vita si è svolta all'insegna della rarità, della sobrietà, della parsimonia nell'apparire, anzi, quasi nel non apparire. Per quel tanto che egli è apparso in pubblico, lo ha accompagnato un carattere di mistero, di qualcosa mai sondato e che era il segreto del suo far musica. Infine, egli non è mai stato immaturo, neppure in anni di giovinezza freschissima. Non è mai stato un promettente artista agli esordi, un principiante di grande talento ma ancora acerbo. Ciò significa che egli ha pagato al tempo e allo spazio un tributo minore di quello cui comunemente si è costretti. È stata la sua suprema nobiltà, e anche la sua suprema rinuncia. Il "troppo umano" cui troppi artisti anche grandi indulgono e che egli non ha mai vissuto è, probabilmente, la parte greve e a lui estranea della sua segreta irripetibilità.